Uno degli alberi appartenenti a questa specie, è stato dedicato alla Cassa di Risparmio dell’Aquila e Provincia, che ci ha sostenuto nella realizzazione del progetto.
L’Annurca è definita la “regina delle mele”, soprattutto per la spiccata qualità organolettica dei suoi frutti, l’Annurca ha da sempre caratterizzato la melicoltura di molto del sud dell’Italia. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano ed in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissimo legame dell’Annurca con la “Campania felix”. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio (Como 23 d.C. – Stabia 79 d.C.). Nei secoli successivi la mela annurca si sposta dal suo luogo di origine ed approda in terre dove le caratteristiche del frutto si esalteranno: nell’area aversana e nel “quadrilatero” al confine tra Sannio e Caserta, poi via via nel Nocerino, nell’Irno, nel Picentino e successivamente nell’Alto Casertano. Oramai in viaggio, arrivò anche in Abruzzo.
Risale al 1950 l’opuscolo ‘Annurche e Sergenti nei melai della Campania’: un lavoro pubblicato da Giuseppe Fiorito, incentrato proprio sulla “regina delle mele”. Basta sfogliarlo per comprendere da subito che l’annurca non è una mela qualsiasi, ma un vero e proprio capolavoro, risultato della grande cura mostrata nei confronti di questo frutto dagli agricoltori.
Maschera di Andromeda, Ercolano, Casa dei Cervi, 45-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nella parte superiore si distinguono le mele Annurche |
Proprio per la provenienza da Pozzuoli, sede degli Inferi, Plinio il Vecchio la chiama “Mala Orcula” in quanto prodotta intorno all’Orco (gli inferi). Anche Gian Battista della Porta (?1535 – Napoli 1615) nel “Suae Villae Pomarium”, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli riferisce come queste siano volgarmente dette orcole. Da qui i nomi anorcola e annorcola utilizzati successivamente, fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G.A. Pasquale. Descrizione del prodotto L’Annurca, anche nel mutante “Rossa del Sud”, è famosa per la polpa croccante e compatta, gradevolmente acidula e succosa, aromatica e profumata, di buone qualità gustative. Il frutto si presenta del tipico colore rosso con epidermide liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare. Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano questa coltura è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”, un tempo coperti di strati di canapa detti “cannutoli” oggi sostituiti da altri materiali (aghi di pino, trucioli di legna, ecc.).
Curiosità:
L’Annurca, veniva coltivata principalmente in Campania, e comprendeva i frutti delle varietà Annurca e Annurca Rossa del Sud. La sua raccolta avveniva tra la seconda quindicina di settembre e la prima di ottobre; tempo in cui queste mele venivano deposte nel “melaro” per completare la loro maturazione. E, ciò, perché avendo tali mele il peduncolo corto e debole, se non raccolte anticipatamente sarebbero state soggette alla cala. Per questa ragione non si eseguiva il diradamento dei frutti per ottenere maggiore pezzatura, poiché il conseguente maggiore volume di esso avrebbe prodotto la rottura, anzi tempo, della maturazione, del peduncolo dal rametto con la cascola del frutto. La raccolta delle mele doveva essere eseguita a mano. Nella tradizione campana le mele venivano poste con accortezza entro speciali ceste denominate: “collette” o “connole” e avviate al “melaro”, per completare colà la maturazione. Il “melaro” era un appezzamento di terreno preparato per tale esigenza. Scelta una località elevata con terreno che non avesse avuto un’alberatura fitta, veniva sistemata a “porche” larghe circa m. 1,20 e lunghe quanto lo consentiva l’appezzamento prescelto, con pendio verso due solchi laterali. Questi solchi, larghi circa cm. 40 e profondi 20, separano le “porche” tra loro, servivano a smaltire l’acqua piovana e consentivano alle donne addette al “melaro” di praticare le cure relative. Questo terreno, veniva coperto da uno strato spesso circa 2 cm. di canapuli, che resistevano bene alla pioggia senza fermentare, su cui venivano adagiate le mele, evitando così il contatto con il terreno. La deposizione delle mele sulle aiuole così preparate era fatta con due strati. Nel primo strato inferiore, a contatto con i canapuli, venivano poste le mele più arrossate e nel superiore quelle con la buccia in parte gialla che veniva rivolta alla luce. Così sistemate le mele venivano visitate successivamente dalla prima all’ultima aiuola asportando quelle di scarto e le mature che si mandavano al mercato, mentre si voltavano quelle con la parte gialla alla luce per farle arrossire. Infine, quando le mele erano completamente arrossate, cioé verso dicembre, si raccoglievano in capanne. Queste, provvisorie e di limitata durata, erano sostituite con materiali vari di vegetali, con pareti facilmente spostabili per farvi passare aria e luce nelle belle giornate invernali. Il tetto con pendenza permetteva alla pioggia di bagnare le mele; il pavimento era fatto con le stesse norme del “melaro” e su di esso si accumulavano le mele a piramide con altezza di circa 80 cm. in uno o più cumuli.