Una mostra nella biblioteca provinciale Melchiorre Delfico di Teramo dall’8 al 31 marzo è titolata: “I fiori del male». Storie di donne in manicomio” e ci fa venire la voglia di riscrivere, per tenerezza, la storia di Elisabetta Seneca del Colle.
“Lisabetta” passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall’alcool, ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L’Aquila.
La sua storia fu quella di tante donne chiuse in manicomio con questi sintomi: loquace, stravagante, smorfiosa, rossa in viso, petulante, civettuola, capricciosa, nervosa, irritabile.
Per tante donne come lei urgeva il manicomio. E peccato, poi, che certe diagnosi fossero sommarie, che rispondessero al modello unico di donna previsto, sposa e madre e mai da sola, nel nostro caso Lisabetta fu vittima dei fratelli per interessi economici.
“Lisabetta” passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall’alcool, ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L’Aquila.
La sua storia fu quella di tante donne chiuse in manicomio con questi sintomi: loquace, stravagante, smorfiosa, rossa in viso, petulante, civettuola, capricciosa, nervosa, irritabile.
Per tante donne come lei urgeva il manicomio. E peccato, poi, che certe diagnosi fossero sommarie, che rispondessero al modello unico di donna previsto, sposa e madre e mai da sola, nel nostro caso Lisabetta fu vittima dei fratelli per interessi economici.
La mostra di Teramo ci fa vedere le loro facce, e leggere le loro lettere: «Mi trovo rinchiusa, in questa carcere, così, in mezzo ai pazzi e a momenti fan diventare pazza anche me!», raccontò Crocifissa G. nel 1906. E Ginevra B, nel 1918: «Sono stufa della vita vorrei morire piuttosto che stare sotto la Carneficina dell’Ospedale di Teramo». Angeladea F., negli anni 30: «Ti prego per l’amore di Papà e fratelli di venirmi a salvarmi da questo brutto luogo che lo odio non ci voglio stare nemmeno a morire». Haidé B., nel 1920: «Io trovarmi in questa sezione, tra malate d’ogni genere, tra le sofferenti, tra le asmatiche, tra le dementi, con visi stravolti, con il fetore della notte, da sentirmi difficile la respirazione; oh, questo è troppo, troppo».
Queste testimonianze sono state raccolte da Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante, che hanno voluto restituire dignità alle tante (troppe) recluse estromesse dalla società. Ci sono riusciti con la mostra fotografica I fiori del male, donne in manicomio negli anni venti, che ha messo insieme immagini e documenti, schede mediche e lettere.
Anche Lucoli ha il suo “fiore del male” Roberto Soldati ci racconta ala storia di Lisabetta.
La “strega” Lisabetta di Lucoli abitava dentro una porticina che conduceva direttamente in cantina, attraverso uno scalone di legno. I due fratelli l’avevano segregata nel sotterraneo di casa per impedirle di condividere un’eredità familiare piuttosto consistente. Tutti gli abitanti del comune la consideravano una poco di buono. Siccome non potevano definirla una puttana, in quanto non fu mai vista in compagnia di uomini, la chiamavano strega. Tutti dicevano che se la faceva con Satana nell’angolo più profondo della sua cantina. Nessuno si curava di lei, nessuno le chiedeva se stava bene o stava male, anzi spesso la denigravano e di conseguenza anche i bambini si sentivano autorizzati a tirare i sassi contro la sua porta o a mettere i botti di capodanno dentro il chiavistello. I paesani la invitavano in casa solo per togliere il malocchio quando qualcuno stava male e i medicinali non funzionavano. Ricordo come fosse ieri, una contadina che aveva un marito sempre con mal di testa e capogiri, bussare forte sulla porta della strega; e quando Lisabetta si affacciò, la contadina le gridò forte: “Tu! Sei stata tu che hai messo il malocchio a mio marito. Tu lo hai messo e tu devi toglierlo”. E così dicendo, cominciò a strattonare la strega verso casa. Una volta Lisabetta sparse in giro la voce che sarebbe venuta la fine del mondo una certa notte del 1960, probabilmente per vendicarsi di un torto subito. Giunto il giorno del giudizio, nel paese aleggiava un clima di catastrofe incombente. Anch’io fui preso dall’angoscia, allora avevo dieci anni. Ricordo un gruppo di vecchiette che parlavano come se quello fosse il loro ultimo incontro. “Beati quelli che sono già morti!”, disse una di loro, rafforzando inevitabilmente la mia angoscia.
Una ragazza, mia vicina di casa di nome Giuliana, aveva incollato l’orecchio alla radio, e saltando da una stazione all’altra, cercava di carpire qualche notizia su quell’apocalisse. Il padre se ne stava silenzioso accanto al fuoco aspettando con cristiana rassegnazione la fine imminente. Il fratello si era rannicchiato in un angolo con le orecchie tappate, mentre la madre, dalla finestra, scrutava per l’ultima volta l’orizzonte con lo sguardo perso nel nulla. Io non ci feci molto caso, quella è sempre stata una famiglia di nevrotici. Ad un certo punto, Giuliana captò Radio Praga in lingua italiana (una specie di emittente pirata comunista). Una voce diceva: “Uomini, donne e bambini di tutte le età chiedono acqua. Posso sentire i lamenti di persone malate…Il treno viene subito fatto ripartire attraverso il fuoco che ha già invaso il binario”. Mentre Giuliana ascoltava queste parole con gli occhi pieni di terrore, la trasmissione si interruppe con un forte sibilo. Giuliana terrorizzata, prese alcune riviste di Grand Hotel, corse nella sua camera e dopo aver oscurato con le riviste i vetri delle finestre, ficcò la testa sotto le coperte per non vedere il fuoco cadere dal cielo durante la notte, come aveva previsto Lisabetta. Tornai subito a casa, accesi la radio su radio Praga e mi resi conto che quel comunicato, che tanto aveva spaventato Giuliana, non era altro che la testimonianza di una deportazione, scritta durante l’ultima guerra. Siccome vidi i miei genitori abbastanza scettici riguardo la fine del mondo, mi rassicurai abbastanza da andare a letto. Quella notte non suonarono le trombe del giudizio, si sentivano nient’altro che grilli. Il mattino seguente era terso e lucente. Quando andai a scuola, Giuliana stava lavando i panni alla fontana, assaporando la nuova vita. Non posso negare che cominciai a provare una certa simpatia per quella strega dall’età avanzata ma indefinibile. Avrei voluto conoscerla meglio, ma la cosa non era facile, era un tipo scontroso e inoltre odiava i bambini. Eppure potevo intuire una umanità ed una fine intelligenza nascosta in lei. Era alta e affascinante. Viveva dentro quella cantina, con una certa dignità e non da disperata. Portava abiti variopinti che faceva da se, modificando vecchi vestiti, al contrario delle altre donne eternamente vestite a lutto in un monocromo nero dalla testa ai piedi. Andava ad attingere acqua con una botticella sulla carriola per annaffiare il suo rigoglioso orto, senza curarsi di ancheggiare elegantemente con una pesante conca sulla testa, come le compaesane. Aveva una innata eleganza che nemmeno il suo dimesso modo di vestire poteva nascondere. I capelli sommariamente raccolti sul capo, erano tenuti da un foulard oppure coperti da un cappello da uomo che metteva durante la stagione calda per ripararsi dal sole, incurante del ridicolo.
Nell’estate del 66, per sfuggire al caldo, mi riparai dentro la chiesa del paese. Salii fin sopra l’orologio del seicento che si era rotto una quarantina di anni prima. Osservandolo con attenzione, mi resi conto che, per qualche motivo, un piccolo ingranaggio si era spaccato, ma il resto era abbastanza in ordine. Si poteva riparare. Mi procurai un peso di ottone per bilancia da un chilo, lo portai al laboratorio di scuola e con molta pazienza riuscii a ricostruire il pezzo. Dopo aver oliato e riassestato il meccanismo, l’orologio ripartì. La notte stessa decisi di collegare i martelli e far funzionare l’orologio a mezzanotte precisa, inaugurandolo. Appena rintoccata la mezzanotte, mi appostai sopra il campanile per vedere la reazione degli abitanti, ma niente! Silenzio totale. Ad un certo punto, venne fuori Lisabetta, aspettando incredula il prossimo quarto. Rintoccate le 24 e 15 se ne rientrò in casa. Il giorno seguente, tutti si complimentarono con me per aver resuscitato l’orologio. Anche i vecchi erano contenti e specialmente quelli soli, che sentivano i rintocchi come una compagnia, un ritorno al passato. Lisabetta ne fu così entusiasta da recarsi in municipio per chiedere un piccolo contributo per me, che dovevo tirare sopra ogni sera tre grossi pesi, uno per le ore e gli altri due per i martelli. Ma il segretario comunale, con logica da burocrate, rispose che quel pezzo d’antiquariato si poteva anche fermare, tanto oggi tutti hanno un orologio per guardare l’ora. Indignatissima Lisabetta venne a riferirmi l’accaduto e testimoniarmi la sua solidarietà. Io le assicurai di dare la carica gratis, anche per fare un po’ di esercizio muscolare. Ad un certo punto decise di mostrarmi una pendola con un carillon incorporato, regalatale da suo zio. Fu l’occasione per andare finalmente a casa sua. Aspettavo una topaia, invece vi trovai un posto pulito, ordinato e stimolante, pieno di oggetti di ogni sorta: corna di cervo, un grappolo di campanelli, un grande vassoio di legno ripieno di sapone fatto in casa, in attesa di essere tagliato a quadratini, conserve di ogni tipo, ampolle piene di intrugli magici, mazzi di varie erbe appesi a seccare, pestelli, un libro di ricette erboriste, un ritratto di Galeno, e una sua foto da giovane incorniciata dentro un attestato di merito che attirò la mia curiosità. Lisabetta si avvicinò e lo prese con cura lasciando sulla parete un riquadro più chiaro, segno che era appeso li da tanti e tanti anni. Indicando l’attestato con il dito storto dall’artrite, mi disse: “Questo l’ho vinto nel 1919 in un corso per l’ammissione alla scuola secondaria. Volevo arrivare all’università, e fare medicina”, affermò con voce un po’ amara, e seguitò. “Mio zio che era in America mi manteneva agli studi. Mandava persino una retta al dormitorio delle Agostiniane all’Aquila. Allora non era facile fare avanti e dietro come adesso. Non c’erano neanche corriere e la strada era scomoda. Purtroppo”, disse malinconicamente riappendendo l’attestato al muro, “finito il liceo sarei dovuta andare a studiare a Roma, però il mio fratello maggiore, quello che lavora al dazio, si rifiutò, dicendo che la città corrompe e poi la medicina non è cosa per donne, e mi impedì di continuare gli studi”. Cercava chiaramente di nascondere una profonda tristezza dietro un’espressione della faccia maldestramente spavalda. Prima ancora che riuscissi ad argomentare una risposta, lei seguitò: “Non ho mai smesso di comprare libri di medicina. Ho sempre sperato di rimettermi a studiare un giorno; ma poi mio fratello scrisse allo zio di non mandarmi neanche più i soldi per comprare i libri, dicendo che ero diventata una fissata, che per studiare trascuravo le faccende di casa e che ancora non prendevo marito”. Un giorno mi ammalai, vomitavo ogni cosa che assaggiavo. Neanche i medici ci capivano niente. Ero diventata uno scheletro. Una volta scacciai il medico in malomodo, gli tirai appresso il clistere che si frantumò in mille pezzi”, disse sghignazzando di gusto. “Fu quel giorno che trovai la forza di alzarmi e studiando alcuni testi di medicina antica riuscii a curarmi da sola, con somma meraviglia di tutti. Decisi di rompere con la famiglia e di sistemarmi dove sono adesso. Mio fratello, per la rabbia, mi fece murare la porta interna per non farmi entrare nel palazzo”, disse con stizza. Le chiesi se le capitava spesso di curare persone. “Si”, mi rispose. “Spesso, molto più di quanto sembra, non con le medicine però ma con le erbe o sostanze naturali. Le persone bene non vogliono farlo sapere in giro e per questo pagano spesso un supplemento per la riservatezza. Di solito ai paesani non chiedo neanche i soldi, faccio a offerta. Spesso ho guarito persone con sostanze senza nessun effetto curativo, ma non per dare una fregatura. Si aspetta il beneficio e il beneficio arriva. C’è chi la chiama suggestione e chi magia, questa cosa. Una volta mi è capitato un tizio che si era convinto di avere un tumore alla testa. Aveva visto morire un vicino di quella malattia e pensava di averla presa anche lui. Ne aveva assunto così bene i sintomi, che i medici gli avevano dato solo pochi mesi di vita. Gli preparai un bell’infuso di valeriana, ma non gli dissi che era solo un calmante, gli dissi che era un rimedio contro il tumore. Lo bevve e giorno dopo giorno cominciò a migliorare. Oggi e ancora li, che scoppia di salute. Porta sempre uno zucchetto di lana in testa estate e inverno per non beccarsi un’altro tumore. Questo è un lavoro serio, bisogna saper discernere la malattia vera da quella falsa, quella metà e metà, o quella seria che abbisogna del chirurgo”. A questo punto non potevo fare a meno di chiederle conferma a proposito dei suoi dialoghi con il diavolo. A questa domanda lei mi rispose con sguardo luciferino: “Il demonio non è all’inferno, il demonio è l’uomo stesso che raggira sottomette sevizia e tortura. Non c’è demonio peggiore del bigotto, secondo me. Satana invita l’umano a guardarsi dal fanatismo religioso che può essere pericoloso quanto e forse più di una guerra, perchè il fanatismo è più subdolo, ingannevole e nascosto. Lisabetta passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall’alcool, ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L’Aquila. Nonostante avesse dei seri problemi reumatici, Lisabetta scappava spesso dal ritiro, e se ne tornava al paese in corriera, ignorata come sempre da tutti. Un giorno del 1974 a L’Aquila, in attesa della corriera mi recai a vedere la basilica di Collemaggio, appena restaurata, dove mi affiancò un vecchio barbone col il palmo della mano mollemente teso che mi chiese: “Qualche soldo, non è per me, è per la masseria. La vedi quella? si nasconde dietro la colonna non è capace, si vergogna, non mi rende, devo pensare anche a lei”. Voltandomi verso la colonna vidi un volto imbacuccato che si affacciava con uno sdentato sorriso per poi ritrarsi vergognoso, era Lisabetta.
Da allora non ne seppi più nulla finché al cimitero del paese non notai una lapide che chiudeva un loculo, senza fotoceramica. Una scritta in lettere di bronzo appiccicate alla meglio diceva: Elisabetta Seneca N. 26.6.1898 M. 22.2.1976.
Queste testimonianze sono state raccolte da Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante, che hanno voluto restituire dignità alle tante (troppe) recluse estromesse dalla società. Ci sono riusciti con la mostra fotografica I fiori del male, donne in manicomio negli anni venti, che ha messo insieme immagini e documenti, schede mediche e lettere.
Anche Lucoli ha il suo “fiore del male” Roberto Soldati ci racconta ala storia di Lisabetta.
La “strega” Lisabetta di Lucoli abitava dentro una porticina che conduceva direttamente in cantina, attraverso uno scalone di legno. I due fratelli l’avevano segregata nel sotterraneo di casa per impedirle di condividere un’eredità familiare piuttosto consistente. Tutti gli abitanti del comune la consideravano una poco di buono. Siccome non potevano definirla una puttana, in quanto non fu mai vista in compagnia di uomini, la chiamavano strega. Tutti dicevano che se la faceva con Satana nell’angolo più profondo della sua cantina. Nessuno si curava di lei, nessuno le chiedeva se stava bene o stava male, anzi spesso la denigravano e di conseguenza anche i bambini si sentivano autorizzati a tirare i sassi contro la sua porta o a mettere i botti di capodanno dentro il chiavistello. I paesani la invitavano in casa solo per togliere il malocchio quando qualcuno stava male e i medicinali non funzionavano. Ricordo come fosse ieri, una contadina che aveva un marito sempre con mal di testa e capogiri, bussare forte sulla porta della strega; e quando Lisabetta si affacciò, la contadina le gridò forte: “Tu! Sei stata tu che hai messo il malocchio a mio marito. Tu lo hai messo e tu devi toglierlo”. E così dicendo, cominciò a strattonare la strega verso casa. Una volta Lisabetta sparse in giro la voce che sarebbe venuta la fine del mondo una certa notte del 1960, probabilmente per vendicarsi di un torto subito. Giunto il giorno del giudizio, nel paese aleggiava un clima di catastrofe incombente. Anch’io fui preso dall’angoscia, allora avevo dieci anni. Ricordo un gruppo di vecchiette che parlavano come se quello fosse il loro ultimo incontro. “Beati quelli che sono già morti!”, disse una di loro, rafforzando inevitabilmente la mia angoscia.
Una ragazza, mia vicina di casa di nome Giuliana, aveva incollato l’orecchio alla radio, e saltando da una stazione all’altra, cercava di carpire qualche notizia su quell’apocalisse. Il padre se ne stava silenzioso accanto al fuoco aspettando con cristiana rassegnazione la fine imminente. Il fratello si era rannicchiato in un angolo con le orecchie tappate, mentre la madre, dalla finestra, scrutava per l’ultima volta l’orizzonte con lo sguardo perso nel nulla. Io non ci feci molto caso, quella è sempre stata una famiglia di nevrotici. Ad un certo punto, Giuliana captò Radio Praga in lingua italiana (una specie di emittente pirata comunista). Una voce diceva: “Uomini, donne e bambini di tutte le età chiedono acqua. Posso sentire i lamenti di persone malate…Il treno viene subito fatto ripartire attraverso il fuoco che ha già invaso il binario”. Mentre Giuliana ascoltava queste parole con gli occhi pieni di terrore, la trasmissione si interruppe con un forte sibilo. Giuliana terrorizzata, prese alcune riviste di Grand Hotel, corse nella sua camera e dopo aver oscurato con le riviste i vetri delle finestre, ficcò la testa sotto le coperte per non vedere il fuoco cadere dal cielo durante la notte, come aveva previsto Lisabetta. Tornai subito a casa, accesi la radio su radio Praga e mi resi conto che quel comunicato, che tanto aveva spaventato Giuliana, non era altro che la testimonianza di una deportazione, scritta durante l’ultima guerra. Siccome vidi i miei genitori abbastanza scettici riguardo la fine del mondo, mi rassicurai abbastanza da andare a letto. Quella notte non suonarono le trombe del giudizio, si sentivano nient’altro che grilli. Il mattino seguente era terso e lucente. Quando andai a scuola, Giuliana stava lavando i panni alla fontana, assaporando la nuova vita. Non posso negare che cominciai a provare una certa simpatia per quella strega dall’età avanzata ma indefinibile. Avrei voluto conoscerla meglio, ma la cosa non era facile, era un tipo scontroso e inoltre odiava i bambini. Eppure potevo intuire una umanità ed una fine intelligenza nascosta in lei. Era alta e affascinante. Viveva dentro quella cantina, con una certa dignità e non da disperata. Portava abiti variopinti che faceva da se, modificando vecchi vestiti, al contrario delle altre donne eternamente vestite a lutto in un monocromo nero dalla testa ai piedi. Andava ad attingere acqua con una botticella sulla carriola per annaffiare il suo rigoglioso orto, senza curarsi di ancheggiare elegantemente con una pesante conca sulla testa, come le compaesane. Aveva una innata eleganza che nemmeno il suo dimesso modo di vestire poteva nascondere. I capelli sommariamente raccolti sul capo, erano tenuti da un foulard oppure coperti da un cappello da uomo che metteva durante la stagione calda per ripararsi dal sole, incurante del ridicolo.
Nell’estate del 66, per sfuggire al caldo, mi riparai dentro la chiesa del paese. Salii fin sopra l’orologio del seicento che si era rotto una quarantina di anni prima. Osservandolo con attenzione, mi resi conto che, per qualche motivo, un piccolo ingranaggio si era spaccato, ma il resto era abbastanza in ordine. Si poteva riparare. Mi procurai un peso di ottone per bilancia da un chilo, lo portai al laboratorio di scuola e con molta pazienza riuscii a ricostruire il pezzo. Dopo aver oliato e riassestato il meccanismo, l’orologio ripartì. La notte stessa decisi di collegare i martelli e far funzionare l’orologio a mezzanotte precisa, inaugurandolo. Appena rintoccata la mezzanotte, mi appostai sopra il campanile per vedere la reazione degli abitanti, ma niente! Silenzio totale. Ad un certo punto, venne fuori Lisabetta, aspettando incredula il prossimo quarto. Rintoccate le 24 e 15 se ne rientrò in casa. Il giorno seguente, tutti si complimentarono con me per aver resuscitato l’orologio. Anche i vecchi erano contenti e specialmente quelli soli, che sentivano i rintocchi come una compagnia, un ritorno al passato. Lisabetta ne fu così entusiasta da recarsi in municipio per chiedere un piccolo contributo per me, che dovevo tirare sopra ogni sera tre grossi pesi, uno per le ore e gli altri due per i martelli. Ma il segretario comunale, con logica da burocrate, rispose che quel pezzo d’antiquariato si poteva anche fermare, tanto oggi tutti hanno un orologio per guardare l’ora. Indignatissima Lisabetta venne a riferirmi l’accaduto e testimoniarmi la sua solidarietà. Io le assicurai di dare la carica gratis, anche per fare un po’ di esercizio muscolare. Ad un certo punto decise di mostrarmi una pendola con un carillon incorporato, regalatale da suo zio. Fu l’occasione per andare finalmente a casa sua. Aspettavo una topaia, invece vi trovai un posto pulito, ordinato e stimolante, pieno di oggetti di ogni sorta: corna di cervo, un grappolo di campanelli, un grande vassoio di legno ripieno di sapone fatto in casa, in attesa di essere tagliato a quadratini, conserve di ogni tipo, ampolle piene di intrugli magici, mazzi di varie erbe appesi a seccare, pestelli, un libro di ricette erboriste, un ritratto di Galeno, e una sua foto da giovane incorniciata dentro un attestato di merito che attirò la mia curiosità. Lisabetta si avvicinò e lo prese con cura lasciando sulla parete un riquadro più chiaro, segno che era appeso li da tanti e tanti anni. Indicando l’attestato con il dito storto dall’artrite, mi disse: “Questo l’ho vinto nel 1919 in un corso per l’ammissione alla scuola secondaria. Volevo arrivare all’università, e fare medicina”, affermò con voce un po’ amara, e seguitò. “Mio zio che era in America mi manteneva agli studi. Mandava persino una retta al dormitorio delle Agostiniane all’Aquila. Allora non era facile fare avanti e dietro come adesso. Non c’erano neanche corriere e la strada era scomoda. Purtroppo”, disse malinconicamente riappendendo l’attestato al muro, “finito il liceo sarei dovuta andare a studiare a Roma, però il mio fratello maggiore, quello che lavora al dazio, si rifiutò, dicendo che la città corrompe e poi la medicina non è cosa per donne, e mi impedì di continuare gli studi”. Cercava chiaramente di nascondere una profonda tristezza dietro un’espressione della faccia maldestramente spavalda. Prima ancora che riuscissi ad argomentare una risposta, lei seguitò: “Non ho mai smesso di comprare libri di medicina. Ho sempre sperato di rimettermi a studiare un giorno; ma poi mio fratello scrisse allo zio di non mandarmi neanche più i soldi per comprare i libri, dicendo che ero diventata una fissata, che per studiare trascuravo le faccende di casa e che ancora non prendevo marito”. Un giorno mi ammalai, vomitavo ogni cosa che assaggiavo. Neanche i medici ci capivano niente. Ero diventata uno scheletro. Una volta scacciai il medico in malomodo, gli tirai appresso il clistere che si frantumò in mille pezzi”, disse sghignazzando di gusto. “Fu quel giorno che trovai la forza di alzarmi e studiando alcuni testi di medicina antica riuscii a curarmi da sola, con somma meraviglia di tutti. Decisi di rompere con la famiglia e di sistemarmi dove sono adesso. Mio fratello, per la rabbia, mi fece murare la porta interna per non farmi entrare nel palazzo”, disse con stizza. Le chiesi se le capitava spesso di curare persone. “Si”, mi rispose. “Spesso, molto più di quanto sembra, non con le medicine però ma con le erbe o sostanze naturali. Le persone bene non vogliono farlo sapere in giro e per questo pagano spesso un supplemento per la riservatezza. Di solito ai paesani non chiedo neanche i soldi, faccio a offerta. Spesso ho guarito persone con sostanze senza nessun effetto curativo, ma non per dare una fregatura. Si aspetta il beneficio e il beneficio arriva. C’è chi la chiama suggestione e chi magia, questa cosa. Una volta mi è capitato un tizio che si era convinto di avere un tumore alla testa. Aveva visto morire un vicino di quella malattia e pensava di averla presa anche lui. Ne aveva assunto così bene i sintomi, che i medici gli avevano dato solo pochi mesi di vita. Gli preparai un bell’infuso di valeriana, ma non gli dissi che era solo un calmante, gli dissi che era un rimedio contro il tumore. Lo bevve e giorno dopo giorno cominciò a migliorare. Oggi e ancora li, che scoppia di salute. Porta sempre uno zucchetto di lana in testa estate e inverno per non beccarsi un’altro tumore. Questo è un lavoro serio, bisogna saper discernere la malattia vera da quella falsa, quella metà e metà, o quella seria che abbisogna del chirurgo”. A questo punto non potevo fare a meno di chiederle conferma a proposito dei suoi dialoghi con il diavolo. A questa domanda lei mi rispose con sguardo luciferino: “Il demonio non è all’inferno, il demonio è l’uomo stesso che raggira sottomette sevizia e tortura. Non c’è demonio peggiore del bigotto, secondo me. Satana invita l’umano a guardarsi dal fanatismo religioso che può essere pericoloso quanto e forse più di una guerra, perchè il fanatismo è più subdolo, ingannevole e nascosto. Lisabetta passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall’alcool, ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L’Aquila. Nonostante avesse dei seri problemi reumatici, Lisabetta scappava spesso dal ritiro, e se ne tornava al paese in corriera, ignorata come sempre da tutti. Un giorno del 1974 a L’Aquila, in attesa della corriera mi recai a vedere la basilica di Collemaggio, appena restaurata, dove mi affiancò un vecchio barbone col il palmo della mano mollemente teso che mi chiese: “Qualche soldo, non è per me, è per la masseria. La vedi quella? si nasconde dietro la colonna non è capace, si vergogna, non mi rende, devo pensare anche a lei”. Voltandomi verso la colonna vidi un volto imbacuccato che si affacciava con uno sdentato sorriso per poi ritrarsi vergognoso, era Lisabetta.
Da allora non ne seppi più nulla finché al cimitero del paese non notai una lapide che chiudeva un loculo, senza fotoceramica. Una scritta in lettere di bronzo appiccicate alla meglio diceva: Elisabetta Seneca N. 26.6.1898 M. 22.2.1976.
Roberto Soldati
2 comments
!!…ROB
da Beti Piotto
Quando la realtà supera la finzione: racconto straordinario di una vita distrutta dall'ignoranza, dall'ipocrisia, e (perché no?) dalla cattiveria pura.