La nostra Associazione ha fatto richiesta per inserire il Gelso dell’Abbazia di San Giovanni Battista tra gli alberi monumentali di Lucoli |
Il Morus nigra, il vero e proprio “moraccio” dei contadini (cosiddetto perché i suoi frutti sono drupe di color rosso scuro, quasi nero, e sono chiamate “more”, non diversamente dai frutti del rovo) è originario dell’Asia Minore, e si trova nei Paesi del bacino mediterraneo da tempo immemorabile.
Per la tradizione popolare e per una leggenda (antichissima), la storia delle “more” nere o bianche, va fatta risalire a una triste faccenda d’amore che ebbe per palcoscenico Babilonia, com’è documentato da Ovidio che ne ha tramandato tutti i particolari, raccontando il crudele “scherzo” organizzato dal Fato alle spese di due giovani innamorati: Piramo e Tisbe. “Pyramus et Thisbe, iuvenum pulcherrimus alter – altera, quas Oriens habuit, praelata puellis – contigua tenere domos, ubi dicitur altam – coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem”.
Il protagonista e la protagonista, i più bei giovani che mai l’oeriente abbia avuto (narra Ovidio) abitavano in edifici contigui, laddove si dice che Semiramide cinxisse coctilibus muris, cingesse con mura di mattoni cotti, la sua grande città. I due s’innamorarono, sognarono di sposarsi, ma al solito furono contrastati dai soliti genitori, e perciò furono costretti a parlarsi segretamente il che facevano grazie ad un muro di confine che presentava una fessura: abbastanza grande per far passare le parole, troppo piccola per consentire di passare dalle parole ai fatti. Cosicchè i due decisero di darsi un appuntamento nella campagna, presso un albero di gelso che cresceva vicino ad una sorgente (“…arbori bi niveis uberrima pomis – ardua morus erat, gelido contermina fontis”), insomma all’ombra di un moraccio che faceva frutti bianchi.
L’appuntamento andò di peste. Oggi potrebbe accadere che una ragazza arrivi puntuale sul luogo convenuto, ma che lui non si presenti perché trattenuto da un ingorgo del traffico, e lei se ne vada via indispettita, e magari butti giù il telefono quando lui la chiama per scusarsi, ma poi ci ripensi, perché un buon partito come Piramo non si trova a ogni angolo di strada, e infine faccia la pace quando lo rimpatta nella solita discoteca. Invece ai tempi di Ovidio ognic osa aveva un andamento più complesso, altrimenti gli antichi non si divertivano. Nel caso specifico, Tisbe andò sotto l’albero dai frutti bianchi (Morus alba), ma vedendo arrivare una leonessa, andò a nascondersi dentro una grotta lasciando per terra un suo velo, chela belva strappò con le fauci che erano insanguinate per aver banchettato a spese di un bovino. Poco dopo arrivò Piramo, vide il velo insanguinato, pensò che la sua Tisbe fosse stata sbranata, e volendo morire anche lui, si ferì mortalmente con un pugnale, mentre un fiotto del suo sangue irrorava i rami del gelso tingendo di nero tutti i frutti bianchi. Un fatto, questo, che rischiò di confondere Tisbe, che infatti, cessata la paura della leonessa tornò sul luogo dell’appuntamento, e riconobbe la pianta ma restò perplessa per il colore dei suoi frutti che non erano più bianchi. Poi i dubbi cessarono quando vide a terra il corpo agonizzante di Piramo, sul quale si gettò piangendo, dandosi anche lei la morte, dopo aver pregato la pianta di gelso di produrre sempre frutti di colore nero in segno di lutto. La preghiera fu udita dagli dèi che l’accolsero, e per questo il colore dei frutti di gelso, quando maturano, divenne nero (“nam color in pomo est, ubi permaturuit, acer”).
Questo accadde a Babilonia, ma poi avvenne in ogni luogo, anche in Italia, anche a Lucoli, dove, prospicente l’Abbazia di San Giovanni Battista, vegeta un Morus nigra secolare. I romani che lessero le storie di Ovidio, videro con i propri occhi che i gelsi portavano il lutto di Piramo e Tisbe, e s si convinsero che i moracci sarebbero stati neri in eterno (non potevano prevedere che dopo qualche tempo sarebbero arrivati i gelsi cinesi con le more bianche….).
Tratto da “Le radici delle piante” di Giorgio Batini. Edizioni Polistampa.