Nel 2003 su Nature un articolo dal titolo Dynamic Diversity definiva la “conservazione non come stasi: ma come mantenimento dell’eccitante, in continua evoluzione, varietà della vita sulla Terra” e poneva le nostre società davanti ad una scelta drastica: “possiamo adoperarci per conservare un mondo naturale dinamico del quale siamo parte integrante oppure possiamo fallire in questa impresa e trovarci di fronte l’equivalente di una stanza bianca tappezzata delle fotografie delle specie e degli habitat con i quali condividevamo il pianeta”. l’autrice, Sandra Knapp, ricercatrice del Museo di Storia Naturale di Londra, si riferiva alla biodiversità naturale e alle sfide della CONVENZIONE SULLA DIVERSITA’ BIOLOGICA (CDB), ma anche al rischio che stiamo correndo per la diversità agricola.
Premesso ciò, con questo articolo volevamo riflettere in merito alle politiche sulla biodiversità comunitarie e nazionali e in particolare sulla parte che ci interessa da vicino: la diversità agricola che la nostra Associazione protegge in qualità di “agricoltore custode”.
Il 2020 era stato indicato come l’anno entro cui arrestare la perdita di biodiversità a livello globale: la Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB – www.cbd.int) nel 2010 aveva adottato il Piano Strategico per la Biodiversità (PSB) per il periodo 2011-2020, un quadro generale che avrebbe dovuto essere integrato in tutte le politiche delle Nazioni Unite e diventare operativo grazie ai piani d’azione nazionali. Per rispondere a questa esigenza, nel maggio 2011 l’Unione Europea aveva lanciato la sua Strategia sulla Biodiversità fino al 2020. L’obiettivo era molto ambizioso: “porre fine alla perdita di biodiversità e al degrado dei servizi ecosistemici e ripristinarli nei limiti del possibile, intensificando al tempo stesso il contributo dell’UE per scongiurare la perdita di biodiversità a livello mondiale”. Questa strategia, suddivisa in 6 obiettivi e 10 azioni, aveva anche due capitoli dedicati alla conservazione della diversità genetica in agricoltura. Nel febbraio 2016, purtroppo, il Parlamento Europeo ha dovuto riconoscere il fallimento di questa strategia. E così l’Unione Europea ha cominciato a mettere in avanti le lancette, individuando un più lontano 2050 come nuovo orizzonte temporale. Ma perché gli obiettivi non sono stati raggiunti? Erano veramente troppo ambiziosi? Forse, ma uno dei motivi del fallimento va ricercato nel sistema di governance politico, come emerge con chiarezza in alcuni dei commenti del Parlamento europeo: la mancanza di coerenza tra le varie politiche settoriali, la mancata applicazione nazionale e la non integrazione del tema della biodiversità nelle politiche non strettamente ambientali sono indicati come problemi da risolvere. La biodiversità per sua natura, infatti, attraversa vari domini, dall’ambiente, all’agricoltura, passando per il commercio e lo sviluppo economico, ma la nostra pubblica amministrazione è ancora organizzata per settori che si parlano con difficoltà. Costruire una visione comune e di conseguenza delle politiche pubbliche si sta dimostrando molto difficile: richiede un cambiamento culturale e una comune percezione di quali siano le priorità tra settori diversi. Ad esempio, chi decide se vale di più mantenere un sistema agricolo diversificato con siepi e bordure o ridurre il campo coltivato a un terreno sterile mantenuto artificialmente in vita da erbicidi, fertilizzanti e fungicidi? Come si capisce non è scelta facile che possa essere resa oggettiva da adeguate prove scientifiche. Ecco cosa ci insegna la scadenza mancata del 2020: abbiamo una mole di dati scientifici a disposizione sulla scomparsa e l’importanza della biodiversità, abbiamo elaborato una serie di indicatori molto sofisticati per studiarla e monitorarla ma tutto ciò non si traduce in politiche efficaci che modifichino le tendenze attuali. Se la biodiversità non se la passa tanto bene, anche quella agricola non gode di buona salute.
E qual’è la situazione in Italia?
Se consideriamo il sistema agrobiodiversità nazionale a partire dalle competenze delle nostre Istituzioni pubbliche per finire con un’analisi della recente legge 194/2015 sulla biodiversità agricola potremmo rimanere frustrati.
Una prima competenza è ovviamente del Ministero della Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MiPAAF), condivisa però con tutte le Regioni e le Province autonome, in forza del Titolo V della Costituzione la cui ultima riforma in senso più decentrato è avvenuta nel 2001. Il Trattato FAO è stato recepito dalla legge 101/2004 che da competenza alle Regioni su uso sostenibile e conservazione della diversità agricola, diritti degli agricoltori, creazione del sistema multilaterale di scambio e accesso facilitato alle RGV (gli articoli 5, 6, 9, 11 e 12), con obbligo di relazione annuale al ministero che ha la responsabilità di presentare il quadro nazionale. Nel 2008 la Conferenza Stato Regioni ha approvato il Piano Nazionale sulla Biodiversità di interesse Agrario (PNBA), che includeva un programma in tre fasi:
A) redazione delle linee guida nazionali;
B) analisi di varietà e razze animali identificate dalle Regioni;
C) attivazione dell’Anagrafe nazionale e del sistema di tutela e valorizzazione.
Nel luglio 2012, dopo un lavoro di 2 anni di un gruppo di 30 esperti, sono state pubblicate le Linee Guida per la Conservazione e la Caratterizzazione della Biodiversità di interesse agrario per dare una comune metodologia a livello nazionale su questo tema (http://planta-res.politicheagricole.it/pages/index.php).
Le fasi B e C, sono diventate di competenza della legge 194 che ci ha consentito di divenire “Agricoltori custodi“.
Il MiPAAF si occupa anche della legislazione sementiera e gestisce il catalogo varietale, ivi compreso la parte sulle varietà da conservazione. Inoltre, il MiPAAF vigila sul Consiglio per la Ricerca in Agricoltura l’analisi dell’Economia Agraria (CREA), i cui centri sparsi sul territorio gestiscono banche delle sementi delle diverse specie agrarie. Il CREA-DC (ex-ENSE) si occupa di certificazione e iscrizione varietale.
Una seconda competenza ricade sotto il Ministero dell’Ambiente, cui spetta la traduzione nazionale della CBD, ratificata dall’Italia nel 1994. In questo ambito è stata elaborata nel 2010 la Strategia Nazionale per la Biodiversità (SBN), il cui ultimo rapporto sullo stato di attuazione è stato redatto nel biennio 2015-2016, con due specifiche aree di lavoro su risorse genetiche (incluse quelle agricole) e agricoltura. In particolare, questo ministero ha la responsabilità di gestire l’accesso e la ripartizione dei benefici derivanti dall’uso delle risorse genetiche (ABS) così come stabilito dal Protocollo di Nagoya, uno degli accordi secondari della CBD entrato in vigore nel 2014.
Una terza competenza è del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), che si occupa della protezione delle varietà vegetali attraverso i vari strumenti di proprietà intellettuale (privativa vegetale, marchi e brevetto) e della loro relativa iscrizione al catalogo nazionale e comunitario (si tratta di un catalogo diverso da quello varietale gestito dal MiPAAF per la commercializzazione delle sementi, per cui una varietà protetta risulta iscritta a due cataloghi: uno per la commercializzazione delle sementi e uno per la privativa vegetale). L’Ufficio Brevetti e Marchi del MISE rappresenta l’Italia nel Consiglio dell’Ufficio Comunitario delle Varietà Vegetali con sede ad Angers (www.cpvo.europa.eu – Francia) e anche all’interno dell’Ufficio Europeo sul Brevetto con sede a Monaco (www.epo.org – Germania). Una quarta competenza ricade sotto il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), che tramite le università e il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) gestisce le molte collezioni pubbliche di risorse genetiche agricole conservate nelle loro banche. Ad esempio, la più grande banca italiana per numero di accessioni conservate, quella con sede a Bari, appartiene all’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR (www.ibbr.cnr.it).
Una quinta competenza è delle Regioni che gestiscono i Piani di Sviluppo Rurale (PSR) della Politica Agricola Comunitaria (PAC) e quindi le relative misure di supporto alla conservazione delle risorse genetiche vegetali e animali (misure 10.1 e 10.2). Si tratta di circa 160 milioni di euro a disposizione nel periodo 2014-2020. Nel 2016 lo stesso Parlamento europeo, nella nota sulla revisione di medio termine della Strategia sulla Biodiversità, chiedeva agli Stati membri di migliorare questo strumento con l’obiettivo di promuovere in maniera più efficace l’uso sostenibile della diversità agricola, riconoscendo l’assenza di progressi misurabili delle azioni adottate nei PSR. In pratica un fiume di soldi di cui è difficile valutare il reale impatto sulla diversità agricola. Ma le Regioni hanno anche altre responsabilità: alcune hanno adottato specifiche legislazioni regionali di tutela dell’agrobiodiversità e tutte sono il tramite attraverso cui le domande di iscrizione delle varietà da conservazione devono passare prima di arrivare al Ministero. Inoltre, giocano un ruolo chiave nell’implementazione della legge 194.
Vi assicuriamo che tante competenze ripartite, o meglio disperse hanno rischiato di tramutarsi in una corsa ad ostacoli per un’Associazione come la nostra che voleva tutelare la biodiversità. Ci è sembrato come un grande valzer in cui ognuno resta a difesa della sua trincea, con poca cura dell’efficacia generale del sistema. Per capire quanto è difficile integrare la biodiversità nelle istituzioni e produrre politiche che rispondano ad una visione comune bastano due esempi. Primo, per arrivare a elaborare la SBN sono stati necessari circa 15 anni dalla ratifica della CBD, spesi nel tentativo di trovare una sintesi tra Agricoltura e Ambiente, mentre la redazione del PNBA e relative Linee Guida hanno richiesto solo (!) 8 anni forse perché non hanno avuto la partecipazione attiva dell’Ambiente. Secondo, l’Italia non ha ancora reso operativo il Protocollo di Nagoya convertendo in legge il Regolamento UE 511/2014, procedura estremamente complicata che ha visto Agricoltura e Ambiente su posizioni opposte prima di arrivare ad un compromesso, tanto che l’Italia è stata richiamata alla Corte di Giustizia Europea per questa inadempienza.
In conclusione, possiamo affermare che il nostro sistema politico e amministrativo non si è ancora riorganizzato per integrare la biodiversità in maniera transettoriale.
La legge 194/2015
In questo panorama arriva nel 2015 la legge 194 “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”, approvata dopo un percorso parlamentare di 6-7 anni avvenuto in parallelo a quanto succedeva nel PNBA. Ci siamo domandati se ha semplificato chiarendo ruoli e responsabilità o se ha aggiunto un altro livello di burocrazia al sistema già alquanto barocco.
CBD Convenzione sulla Diversità Biologica
CCES Centri di Conservazione ex-situ
CNR Consiglio Nazionale delle Ricerche
CPVO Ufficio Comunitario delle Varietà Vegetali
CREA Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria
ENSE Ente Nazionale Sementi Elette
EPO Ufficio Europeo sul Brevetto
MiPAAF Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali
MISE Ministero dello Sviluppo Economico
MIUR Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
PAC Politica Agricola Comunitaria
PNBA Piano Nazionale sulla Biodiversità di interesse Agrario
PSB Piano Strategico per la Biodiversità
PSR Piano di Sviluppo Rurale
RGV Risorse Genetiche Vegetali per l’Agricoltura e l’Alimentazione
SBN Strategia Nazionale per la Biodiversità
La nostra Associazione in sette anni di lavoro ha seguito questo iter per essere iscritta nell’Anagrafe Nazionale (esistono anche quelle periferiche gestite dalle Regioni):
a) domanda alla Regione che tramite la sua Commissione Tecnico-Scientifica, prevista dalla legge regionale, o il Nucleo di Valutazione, se non ha una legge regionale ad hoc, verifica il dossier e lo trasmette al MiPAAF.
b) in 30 giorni il Ministero ha chiuso l’istruttoria e ha emanato un apposito decreto per l’iscrizione.
Una regione che ha una legge regionale finisce per avere: il repertorio regionale, l’anagrafe nazionale e, in ultimo, la sezione del catalogo sementiero dove iscrivere le varietà da conservazione: si corre il rischio di perdersi per strada nel tentativo di capire dove incasellare una varietà!
Percorso simile abbiamo seguito per diventare “custodi” ed essere iscritti nella Rete Nazionale: a) domanda alla Regione e poi iscrizione da parte del MiPAAF. Finite tutte queste pratiche è attualmente in corso di predisposizione l’Anagrafe e la Rete, gestita direttamente dal MiPAAF, con membri agricoltori custodi (singoli o associati) e CCES.
Ovviamente il tutto sarà soggetto a un controllo “standardizzato e partecipato” definito da un futuro decreto del Direttore Generale dello Sviluppo Rurale previo parere del Comitato Permanente, istituito dall’articolo 8. Ad oggi l’Anagrafe è popolata con gli elenchi delle regioni Toscana, Umbria, Marche, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Basilicata e Puglia. La legge prevede anche di creare il Portale Nazionale della Biodiversità di interesse agricolo e alimentare (art. 5) dove far confluire le informazioni delle singole banche dati. Nei prossimi mesi sapremo se tale portale andrà ad integrarsi a quello già esistente del MiPAAF (Planta Res –http://planta-res.politicheagricole.it/pages/index.php) o se sarà creata un’altra piattaforma. Il Giardino della Memoria di Lucoli avrà anche, a breve, un marchio figurativo collettivo di “Agricoltore/allevatore custode dell’agrobiodiversità“.