Spesso le persone che hanno cura di un bene comune accessibile a tutti, come il terreno dove sorge il Giardino della Memoria vicino all’Abbazia di San Giovanni Battista di Lucoli, non lo sanno, ma stanno creando una ricchezza sui loro territori: un “tesoro” che rimane nascosto e invisibile, ma che loro costruiscono giorno dopo giorno. Ma, come tutto il lavoro di cura che ognuno di noi svolge nelle mura delle proprie case, anche quello che è svolto dai volontari per la cura dei beni comuni è scarsamente valutabile in termini monetari, non andando a far parte del PIL, ossia delle attività produttive che muovono i “soldi” sui mercati.
Ci vedremo sabato per la solita manutenzione del Giardino in preparazione dell'inverno.
Lavoreremo su attività precise anche nell'area circostante il Giardino.
Con questo post vogliamo fare il punto, un po’ sociologico (e non ce ne vogliate) delle nostre motivazioni e consapevolezze in merito a queste giornate che dedichiamo al territorio e che non sono solo scampagnate o riunioni tra amici perché sono fondate sui valori in cui crediamo.
Siamo convinti che prendersi cura dei beni comuni convenga
Vi sono almeno due effetti di tipo economico che, a livello personale e di comunità, si creano grazie a chi si prende cura dei beni comuni:
1) A livello personale
Chi si prende cura di un bene comune lo fa innanzitutto per aumentare la qualità della propria vita: si sta meglio in un luogo più curato e magari pieno di bellezza del paesaggio, dove ci si dà una mano l’un l’altro, in cui ci si conosce e si sviluppano e mantengono relazioni sociali e attività a cui diamo valore.
Nell’ultimo decennio gli interventi dei cittadini si sono spostati sempre più da un generico interesse per la cura di beni comuni “naturali” (quali l’acqua, aria, ambienti e loro fauna e flora), verso beni in degrado o abbandono, sia in contesti urbani che rurali. Si tratta dei cosiddetti “anticommons”, ossia beni di proprietà di chi, detenendo i diritti su quei beni, li può anche non utilizzare e lasciare allo stato incolto. Ciò che non “rende” non si cura. Ciò può creare un utilizzo “non ottimale”, con conseguente scarsa/nulla “funzione sociale” dei beni da parte di quei proprietari (anche in contraddizione con quanto è riconosciuto dall’art 42 della nostra Costituzione) che talora condannano i loro stessi beni alla dimenticanza: la “tragedia” degli “anticommons” sta proprio nel fatto che scarsi incentivi o rendimenti o investimenti portano progressivamente all’abbandono e degrado di numerosi beni. Quindi avere beni comuni curati dai volontari, significa anche aumentare il benessere. E questa è certamente una prima “ricchezza” che queste persone creano: una “ricchezza” per loro stessi e per chi vive e usufruisce di quei beni comuni, attraverso ciò che era “sottoutilizzato” o abbandonato, rendendolo fruibile a tutti e quindi “valorizzandolo”.
2) La cura di ciò che è collettivo incrementa il valore dell’area in cui si vive o che si ama.
Ma così facendo, i volontari che operano insieme sui territori creano una ricchezza che non è più quindi solo quella personale. Bensì collettiva, della comunità. Ed è proprio in ciò che sta un altro tipo di ricchezza che si crea sui territori. Il bene comune rigenerato, rivitalizzato, mantenuto, acquista indubbiamente un valore maggiore. Un’area in cui si cura l’ambiente acquista anche un valore maggiore per tutti. Si creano quelle che gli economisti chiamano “esternalità positive” dei beni comuni. Le esternalità positive dei beni comuni sono “immateriali” come la fiducia reciproca, il senso di “sicurezza” dei luoghi in cui si vive, l’inclusività: ma questi aspetti creano un valore maggiore anche dei beni “materiali” (spazi verdi, la cura del paesaggio e dei beni storici di un luogo) perché attraverso la cura dei beni comuni, tendono ad acquisire maggiore “valore” quei luoghi, non solo per chi ci vive (valore d’uso) ma anche per gli altri ad esempio i turisti (valore di scambio). Quei luoghi, in sintesi, “valgono” di più perché sono “grumi” di relazioni sociali positive. E’ ciò che crea capitale sociale e benessere delle comunità. E questi aspetti non sono quasi mai resi “visibili” e sono difficilmente “quantificati”. Ma è proprio l’insieme di queste esternalità positive che costituisce il “seme” di un nuovo tipo di sviluppo locale di quei territori: sviluppo sociale ed economico tra loro strettamente connessi. Anzi: uno sviluppo sociale connesso ai beni comuni che, con le sue “esternalità positive”, crea anche un nuovo tipo di sviluppo economico locale.
Ci siamo chiesti tante volte, dal 2009, come l’esperienza di volontariato del Giardino della Memoria potesse aiutare a sviluppare un nuovo modello locale: la testimonianza di buone pratiche, la capacità di tenuta, la coerenza delle idee e dei valori, in un tempo in cui purtroppo si abbandona tutto. Abbiamo segnali positivi, tangibili, dai turisti che visitano l’area, dagli addetti ai lavori interessati alle specie botaniche dei frutti antichi che coltiviamo, dalle Istituzioni regionali che vorrebbero addirittura che si ampliasse l’area, eppure fatichiamo immensamente: riceviamo molte pacche sulle spalle, lusinghiere, ma spesso ci sentiamo soli e se pensiamo al futuro non vediamo il passaggio del testimone. Siamo anche consapevoli che su queste dinamiche dovrebbe giocare un ruolo strategico la capacità abilitante delle istituzioni, come è emerso da una recente ricerca riferita ad uno specifico territorio della Toscana in cui si è approfondita l’analisi. Quando i volontari che si occupano di cura dei beni comuni riescono a coordinare o integrare le loro attività con le istituzioni locali, con continuità in “spazi” specifici che possiamo chiamare “laboratori” territoriali, ci si può accorgere che emerge quel fenomeno che abbiamo chiamato “coscienza dei luoghi”. Le persone, cioè, sono interpreti dell’ambiente in cui vivono, sviluppando cooperazione, collaborazione reciproca, in cui gli aspetti produttivi e di vita sociale sui territori s’intrecciano indissolubilmente in un comune modo d’intendere, vivere e progettare i luoghi stessi da parte dei cittadini e istituzioni insieme. Ciò può avere un duplice effetto:
1) si crea un “vantaggio competitivo localizzato”, una “cultura” locale dei beni comuni che rigenera e rimette in circolo risorse nascoste delle comunità e dei territori, specifiche di quei luoghi. Sono gli stessi “vantaggi” individuati in numerosi studi e ricerche posti già alla base dei distretti industriali e dei network di imprese, in cui si evidenzia come si viene a creare una sorta di comunità sociale tra i produttori dell’intera catena del valore territoriale, capace di risolvere i problemi che si pongono nell’attività ordinaria di queste organizzazioni, sviluppando collaborazione e coordinamento sui territori e sinergie con i consumatori (G. Becattini, Ritorno al territorio, il Mulino 2009).
2) Si creano così, per tale via, anche “economie circolari”. Favorire la crescita di una comunità che cura ciò che è sottoutilizzato o abbandonato significa infatti anche attivare cicli rigenerativi di spazi e abitazioni/immobili, cibo e terre, ma anche persone con le loro competenze e saperi.
Dinamiche, pensieri e forse sarà solo filosofia … quella della “coscienza dei luoghi“,.. intanto domani in modo concreto ci daremo da fare, ci ritroveremo con le nostre storie ed esperienze e le nostre mani per faticare.
Lo spirito di servizio delle azioni ci farà sentire stanchi ma contenti.